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LINCOLN Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 febbraio 2013
 
di Steven Spielberg, con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Joseph Gordon Levitt, David Strathairn (Stati Uniti, 2012)
 
L'esperienza più eccitante offerta di questi tempi dalle sale cinematografiche è il visionamento in parallelo di due grandi film, identici e opposti. Identici, perché trattano dello stesso soggetto, l'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti della Guerra di Secessione. Opposti, perché il modo di rendere in immagini uno dei momenti più drammatici e significativi della storia americana e della cultura mondiale di LINCOLN non potrebbe essere più diverso da quello, che abbiamo già descritto, di DJANGO UNCHAINED. Ed è proprio dal confronto fra due particolari energie, due indignazioni a stento trattenute, due strategie espressive così speculari come quelle di Steven Spielberg e Quentin Tarantino che possiamo misurare quanto ancora sia vitale un linguaggio che troppo spesso confondiamo con l'avvilimento del suo consumo scriteriato.

Ambedue emblematici nel cinema moderno e maestri nelle costruzioni drammatiche, ma non poi così dissimili nelle finalità del proprio stile: l'arte cinetica dell'autore di INDIANA JONES, che gli permette di trascinare in una fuga in avanti i protagonisti, esseri umani o meccanici che siano, mutandoli in dinamica, in estetica cinematografica e di conseguenza in itinerario morale. E l'impatto dirompente del regista di KILL BILL, che costruisce sulla sapienza ritmica e linguistica dei dialoghi, la passione cinefilica che si fa maestria della rivisitazione, la scelta di situazioni, personaggi, musiche che gli consentono un'ambientazione di una originalità, più che paradossale, squisitamente postmoderna. Senza abdicare a quelle prerogative, affrontando il medesimo dramma, gli ultimi due film di Tarantino e di Spielberg sono però clamorosamente innovativi. DJANGO UNCHAINED perché, all'interno di una delle tipiche storie tarantiniane di vendetta conferma la tragicomica, esplosiva truculenza della passione pulp; ma acquista accenti inediti, d'indignazione, di urgenza politica, di una commozione inattesa. LINCOLN, perché ha il coraggio di rinunciare ai marchi di fabbrica del cinema spielberghiano, alla sua vocazione spettacolare, ad una certa prosopopea nei confronti della "nobiltà" del tema affrontato, Per affermarsi come il film più controllato della lunga carriera dell'autore, tutto impregnato dell'arte trattenuta del kammerspiel, lucido e determinato nel privilegiare l'intimità, piuttosto che l'esteriorizzazione aneddotica degli avvenimenti e dei protagonisti.

Soltanto in due sequenze, l'iniziale e la conclusiva, Spielberg si concede infatti la celebrazione estetica di quella che è sempre stata una delle sue specialità (dal celebre SALVATE IL SOLDATO RYAN al recente WAR HORSE), la rappresentazione monumentale dell'orrore guerriero. Solo una cornice, all'interno della quale ci si concentra sugli ultimi due mesi di vita del Presidente più ammirato della storia degli Stati Uniti, sul segreto della sua politica dal pragmatismo inscalfibile, ma di un suo privato più fragile e umano. In quel celebre 1865, l'appena rieletto Abraham Lincoln deve riuscire ad imporre il 13mo emendamento che abolisce lo schiavismo agli intrighi della politica e gli incerti di una maggioranza risicata proprio nei giorni del Congresso (non a caso il film è stato avvicinato a situazioni attuali); con il drammatico dubbio morale che un successo politico avrebbe forse comportato il prolungamento della carneficina in atto. Spielberg sfronda la sua meccanica drammatica, mai celebrativa e perfettamente ordinata, all'interno di pochi, pur gloriosi ambienti; sul gioco corale delle relazioni pubbliche e private, che finiscono per creare, oltre l'esito che sappiamo scontato, un'interrotta tensione.

La riuscita di LINCOLN è con ciò non da ultimo debitrice della resa straordinaria degli attori. Il mimetismo che riesce a Daniel Day-Lewis nel ridarci in tutta la sua solitudine l'icona idolatrata dalla figura curva avvolta nello scialle, le guance scavate sotto il cappello a cilindro e lo sguardo tranciante è di un'evidenza rara. Ma non è certo da meno l'immenso Tommy Lee Jones nel raffigurare i sussulti minimi del radicalismo utilitario repubblicano di Thaddeus Stevens; o lo spazio che riesce a crearsi il Segretario di Stato interpretato da David Strathairn.Testimonianze splendide dell'importanza determinante per il cinema americano della grande tradizione attoriale.


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